Paura di S. Zweig: amabile scoperta

Paura di Stefan Zweig è la dimostrazione lampante di come non sempre brevità sia sinonimo di incompiutezza o scarso valore. Si è rivelato, infatti, uno dei racconti più ricchi che io abbia mai letto, un testo dal quale poter trarre spunti di riflessione ad ogni rigo. E proprio la caratteristica dell’essenzialità, forse, ne ha favorito l’impatto: se il racconto fosse stato più lungo e articolato, probabilmente non avrebbe suscitato il brivido necessario.

L’intreccio è assai semplice: Irene Wagner, affascinante donna della borghesia viennese e moglie di un noto avvocato, ha una relazione adulterina con un giovane pianista dallo spirito bohémien. Un giorno l’incontro con una sordida ricattatrice, avvenuto proprio mentre si trova a scendere le scale di casa del suo amante, cambia terribilmente la sua esistenza. Dal quel momento in poi i suoi pensieri non avranno più pace.

Irene diventa un’adultera senza averne consapevolezza. Perché? Perché “per molte donne l’assenza di desideri risulta ugualmente fatale quanto la continua insoddisfazione”. “La sazietà non è meno tormentosa della fame e quella vita protetta, priva di pericoli, suscitava in lei la curiosità dell’avventura”.

Irene ha bisogno dell’avventura dal momento che tutto nella sua vita sembra essere troppo perfetto. E’ attratta dall’artista che vive in ristrettezze economiche, figura così lontana dal suo mondo borghese, ma allo stesso tempo ne è inappagata. Anche nel meccanismo dell’avventura, prima o poi, arriva la stasi e, di conseguenza, l’apatia.

In Irene lottano il desiderio irrefrenabile dell’eccitazione e l’incapacità di correre un gran rischio per provarla: l’ambiente familiare e la tranquillità delle cose che le appartengono le assicura una serenità senza prezzo.

Non è l’azione a rendere questo piccolo romanzo straordinario, ma è l’attenzione alla psicologia dei personaggi, della quale Zweig fornisce tante sfaccettature. Nulla infatti resta intentato.

Un altro personaggio rilevante è quello del marito Fritz, ritratto della medietas e della razionalità. La moglie si accorge di non conoscerlo nel profondo, dal momento che non riesce ad immaginare quale potrebbe essere la sua reazione una volta venuto a sapere del tradimento. Zweig affida alla suspense la sua imperturbabilità, destinata – prima o poi – ad evolversi in un qualche tipo di sentimento (?)

Resta al lettore scoprire di quale sentimento si tratti.

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La Sposa giovane – A. Baricco

Dopo molti anni ho deciso di riavvicinarmi all’universo di Alessandro Baricco attraverso un libro che avevo quasi dimenticato di possedere: La sposa giovane. E’, forse, uno dei titoli meno noti del tanto apprezzato quanto odiato scrittore torinese. Peccato. L’ho cominciato quasi per gioco, a tempo perso, eppure mi ha conquistata ad ogni singola pagina. Era da tempo che non mi capitava di essere rapita da una storia e di provare quel senso di impazienza dettato dalla volontà di scoprire il finale. Si è trattato, per me, di un bellissimo viaggio che consiglio vivamente a chi ha voglia di una lettura inusuale. Probabilmente non è un libro adatto a chiunque, di fronte ad un’opera del genere non bisogna prefiggersi aspettative, ma semplicemente lasciare che l’estetica della parola vi trascini. Ci si perde in un mondo familiare in cui l’assurdo diventa reale, tra personaggi privi di nome ma singolari: uno Zio che dorme sempre, pur essendo sempre presente con la mente; una Madre, maestra dell’erotismo e dispensatrice di sillogismi incomprensibili; il Padre, affetto da una certa “inesattezza del cuore”; la loro Figlia, di una bellezza perfetta, nonostante il suo essere storpia. Il Figlio, promesso sposo e assenza costante del romanzo. E, tra questi personaggi innominati, una Sposa giovane rimasta in attesa, e un maggiordomo impegnato ad essere perfetto per evitare di pensare al senso del vivere. Tutti tormentati dal terrore della notte, perché è di notte, solitamente, che i membri della famiglia muoiono. Alle vicende dei personaggi – che ruotano attorno all’attesa dell’unico personaggio in absentia – si intrecciano quelle dell’autore della storia stessa.

Il risultato è un capolavoro stilistico che si addice solo a rare geniali penne.

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«La paura ha due uscite: un egoismo più grande e un’apertura più radicale» Sulla paura. Parole in soccorso ai tempi del coronavirus

In questo tempo sospeso in cui la paura ci immobilizza e l’ansia abita il nostro petto, la casa editrice Anima Mundi corre in nostro soccorso attraverso la forza della parola, affinché possiamo continuare a respirare senza perdere la speranza.

Mentre nell’isolamento delle nostre case siamo bombardati dai media con immagini e discorsi scoraggianti, in una realtà editoriale di Otranto nasce un “istant-book” gratuito, che raccoglie voci divergenti rispetto al consueto per dare una chiave di lettura diversa.

Il volumetto si intitola Sulla paura. Parole in soccorso ai tempi del coronavirus e raccoglie il contributo di autori nazionali ed internazionali che da un lato esprimono in versi o in prosa le loro considerazioni sul sentimento molto umano ed universale della paura, dall’altro offrono conforto al lettore invitandolo alla bellezza, alla generosità e alla ricerca di senso. Si tratta, infatti, di poesie e pensieri scritti – o trascritti – proprio durante questi giorni di emergenza, per alleviare il panico con la medicina della letteratura.

Franco Arminio, nel Piccolo discorso sulla paura presente nel volume, sottolinea a tal proposito:

«Noi tutti siamo portatori di uno splendore provvisorio. La paura ci deve portare a una luce più grande, a una maggiore attenzione per il dolore degli altri. Questo è un contagio che ci chiama alla generosità e alla bellezza. Non ci salviamo chiudendo in un angolo del mondo la nostra vita, ma usandola tutta intera per noi e per tutti».

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Tra i testi selezionati, oltre a quelli del poeta Arminio e di altri autori come Christian Bobin, Rainer Maria Rilke, William Butler Yeats e Antonio Ferrara, troviamo anche quelli di filosofi come Simone Weil e José Ortega Y Gasset.

Riconosco la vita

in ciò che mi interrompe,

mi stronca, mi ferisce, mi

contraddice. E’ la vita che

parla quando le si è

proibito di parlare,

sconvolgendo previsioni e

pensieri, liberandoci

dall’uggiosa assuefazione

che abbiamo a noi stessi.

Christian Bobin

Il libro, che include riflessioni preziose che rimarranno come consolazione ma anche come memoriale di questo momento storico, è a disposizione sul sito animamundiedizioni.com e lo si può ricevere a costo zero, pagando soltanto le spese di spedizione. Facoltativamente, chi lo desidera, può fare una donazione per sostenere le spese di stampa del libro.

Io sono me stesso

e l’ambiente che mi

circonda

e se non salvo

quest’ultimo,

non salvo nemmeno me

me stesso.

José Ortega Y Gasset

“L’infanzia ha un cielo terso nel petto” Lettere a Francesca di Giulia Calligaro

L’elemento straordinario, il collante che come un fil rouge aggrega tutti i volumi che compongono la collana Piccole gigantesche cose della casa editrice Anima Mundi, è la semplicità. Quello della semplicità è il valore più elementare, forse, eppure quello che più di tutti si sta perdendo, come se complessità potesse essere ormai considerato sinonimo di autorevolezza. Ma quando ti capita di leggere volumetti intimi come quello di Giulia Calligaro ti accorgi che solo il semplice, solo il piccolo ti può insegnare qualcosa di grande. Questo miracolo è possibile perché in questo libretto il quotidiano e soprattutto il personale diviene un elemento universale che parla, prima ancora che ad ogni lettore, ad ogni uomo. Non è un caso infatti che l’autrice attraverso il genere dell’epistolario ci consenta di penetrare in quel mondo privato che la unisce a sua nipote, dedicataria delle lettere e allo stesso tempo rappresentante dell’intera umanità. E’ per tali ragioni che nel corso della lettura accade qualcosa di magico: i sentimenti di una zia nei confronti di sua nipote investono direttamente noi tutti.

Questo libro nasce da un’esigenza di protezione, da una cura, intesa nel senso di premura, preoccupazione nei confronti della vita umana. Giulia ammonisce, ma senza presunzione, vorrebbe assumere su di sé le tortuosità che l’esistenza, immancabilmente, riserverà a sua nipote. E’ un estremo atto d’amore che, non potendosi concludere nella concretezza dei fatti, viene affidato al potere della parola.

Le Lettere si aprono con una riflessione relativa al valore della “soglia”, il passaggio dall’infanzia all’età adulta; la soglia è un luogo scomodo e allo stesso tempo un magistero perché, come scrive Sara Costanzo nella prefazione “quando non possiamo più vedere, arriviamo a guardare. Guardare l’umano da dentro la nostra fragilità. Proprio questa fragilità assunta permette alla nostra parte bambina di trasformarsi […] in un bellissimo fiore”. Cosa resta, poi, delle Lettere a Francesca? Inestimabili insegnamenti che ci ricordano che la bellezza non dipende dal possesso ma è sufficiente in sé ad illuminare il mondo, e che “la sensibilità è il più grande coraggio che puoi offrire alla vita”.

“Le Lettere mi continuano a guardare e sento che mi accompagnano dentro le soglie quotidiane, sussurrandomi che – la vita ci è data per illuminare gli angoli bui e per un amore sconfinato per la verità – e che l’infanzia, e dunque anche la mia parte bambina, – ha un cielo terso nel petto -”

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Impressioni di lettura: Leggenda privata di Michele Mari

«La vena confessionale di Mari tocca in queste pagine alcuni dei suoi punti più alti, gli angoli più scabrosi della personalità sono messi a nudo in un viaggio infero nella vergogna affrontato con coraggio e spregiudicatezza». È attraverso queste parole che il giornalista culturale Carlo Mazza Galanti tenta di inquadrare lo spessore di un’opera come Leggenda privata, romanzo nel quale l’autobiografismo raggiunge picchi elevati, fin’ora forse mai raggiunti da Mari, eccezion fatta per il monologo Rondini sul filo e per le Cento poesie d’amore a Ladyhawke. All’interno dell’opera un posto di prim’ordine è occupato dalla figura dei genitori, dei quali viene fornito un preciso ritratto: l’autore non nasconde quale sia l’origine del suo mondo di mostri, nevrosi ed ossessioni. Si tratta di un libro intimo, sicuramente utile al lettore che decide di avvicinarsi alla figura di uno scrittore idiosincratico come Michele Mari; il confronto con queste pagine comporta un unico rischio: toccherà sprofondare con l’autore stesso negli abissi di un passato di demoni, senza ritorno. La narrazione è marcata da una buona dose di fredda razionalità, sebbene la leggenda privata risulti in ogni caso cruda e per questo straziante. Nonostante l’autore squaderni tutta la sua interiorità, non vi è una rinuncia all’elaborazione formale: siamo sempre dinanzi ad un genio della parola, uno dei più importanti e riconosciuti narratori della contemporaneità.

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“Più viva che mai”, il manifesto d’amore di Christian Bobin

“Questo autore riesce sempre ad assomigliarti. Tu leggi e pensi che sta scrivendo come scrivi tu, come pensi tu, come senti tu. Penso che tanti lettori abbiano questa sensazione rispetto a Bobin. Lui è lo scrittore che ci somiglia, ci fa credere in Dio anche se non crediamo in Dio, ci fa credere all’amore anche se non crediamo all’amore, ci fa essere buoni anche se non siamo buoni”.

Franco Arminio impiega queste parole, per descrivere l’autore francese caro ad Anima Mundi Otranto, all’interno della prefazione che apre uno dei suoi libri più straordinari; Più viva che mai è incatalogabile, esattamente come quasi tutte le opere di Bobin. Non è un romanzo, non è un saggio, non è una raccolta di poesie. Io lo percepisco, piuttosto, come un potentissimo manifesto d’amore, uno dei temi a lui più cari. Qui trova posto un amore più forte della morte, un amore sovrumano e silenzioso che rende “più vivi che mai”, nonostante si tratti di un sentimento indirizzato ad una donna assente.

“Devo a te una delle mie più grandi scoperte, ti devo questo sapere prezioso: l’amore non sta mai fermo in un posto – e come potrebbe? Non c’è posto per lui in questo mondo. Per poterci venire, non può essere che a tua immagine – insensato, sconvolgente, inspiegabile, folle, vivo, vivo, vivo”.

La persona di cui si celebra l’assenza, difatti, è morta di aneurisma cerebrale. Il dramma, la tragicità, il dolore insopprimibile che un evento del genere porta con sé, tutto risulta come nebulizzato attraverso le parole. E’ un testo che ha il sapore delle cose strazianti, eppure non cade mai nel patetico, tutto si imprime su carta con la delicatezza, la leggerezza che è propria dello stile inconfondibile di Christian Bobin. La dedicataria di questi pensieri erranti è morta, ma è resa totalmente viva attraverso descrizioni così puntuali al punto da riuscire quasi a percepirla, a vederla, ad afferrarla.

Il ritratto di Ghislaine, la donna amata ed agognata, è straordinario: ridente, terribile, geniale, libera. In divenire.

C’è parte di Ghislene nel ritratto di ogni Donna.

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La terza medicina di Arminio: curare attraverso la parola e lo sguardo

E’ una fortuna avere al giorno d’oggi figure come quella di Franco Arminio. La sua è una scrittura godibile, che non affatica gli occhi dopo una giornata di studio o di lavoro, al contrario è una scrittura che rinfranca le nostre vite come fa la pioggia d’estate con le zolle di terra riarse. Manifesto della terza medicina è un libretto scarno, da assaporare in un’ora: scivola giù come una pastiglia di anti-depressivo, ma senza effetti collaterali. Riflette sul potere della lingua e dello sguardo, sulla possibilità di assumere un luogo, “il vento di un certo posto, le parole che stanno nell’aria”. Avete mai sperimentato il potere salvifico della poesia? Versi immateriali che fluttuano dalla pagina ai nostri occhi, e dai nostri occhi dritto all’anima; Arminio pone nero su bianco l’efficacia di questa medicina, ed è una cura intensa e miracolosa, “guarisce chi la legge, e per chi scrive è al tempo stesso veleno e rimedio”. La terza medicina non impedisce l’insorgere della malattia, ma considera l’amicizia, la rivoluzione, la preghiera, la gentilezza, l’ansia stessa come forme di terapia. Insegna a entrare nel mistero della morte, scandaloso e indicibile, come forma di guarigione. E nulla esclude: compreso il fatto che molto spesso non è necessario curare, intervenire, medicalizzare. Alle volte bisogna lasciarsi vivere, abbandonarsi alla corrente, a quello che deve semplicemente accadere: “un amore, un disagio, una letizia, una sventura”.

Dicono che la letteratura non guarisca i mali dell’uomo, sono solo parole sparse, vacuità; probabilmente non hanno mai sperimentato la straordinarietà di sentirsi in empatia con certe parole:

Le malattie dell’anima

vengono dagli occhi.

Pensa a come ti hanno guardato

quando ti guardano adesso,

non credere troppo in fretta

all’inimicizia degli altri,

quasi sempre è distrazione,

non credere neppure

che il dolore ti sia stato assegnato

per sempre.

Guarda in libertà

fatti guardare liberamente,

pensa al bene

da portare agli altri,

non pesare quello che ti danno

gli altri.

Infine: ripetere qualche errore

è umano, lo farai sempre,

ti serve ad avere una traccia,

ma ogni tanto allontanati,

vattene via dalle tue attese,

da quelle belle e da quelle brutte,

lontano da te e dalla tua vita

ci sono cose bellissime

che ti aspettano.

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“Ciò che trovo è mille volte più bello di ciò che cerco”, Autoritratto al radiatore di Christian Bobin

Leggere Christian Bobin, dal giorno in cui l’ho scoperto grazie ad un editore straordinario come Giuseppe Conoci, è diventato il mio modo di tornare alla vita, di rientrare in essa, di resuscitare. E’ un miracolo che si compie ogni qualvolta, straziata e insoddisfatta di una non-vita che corre affannosamente, decido di fermarmi su una panchina spoglia come questa e di tornare a respirare. Leggere Autoritratto al radiatore, questo diario che educa all’incontro con le cose semplici del mondo, equivale ad una boccata d’aria pulita, a pieni polmoni. Attraversare queste pagine così intime significa sperimentare cosa accade quando un libro è in grado di nutrire visceralmente: si è improvvisamente sazi ed ebbri di vita. Autoritratto offre al lettore 2.0 il ritratto del suo autore – nudo, essenziale, e lo specchio in cui riscoprirsi creature manchevoli. Manchevoli di leggerezza, di gioia, di amore. Manchevoli di tutto ciò che Bobin è riuscito ad incarnare in sé stesso e nella sua parola. Non a caso nella realtà del “tutto e subito” Bobin insegna l’attesa – di un imprevisto, di una luce brutale o del nulla; insegna a demolire quel mantra “una vita si costruisce” per affidarsi alla corrente, con una fede cieca nella provvidenza dell’esistenza stessa. Spesso riteniamo di essere bisognosi di tutto, di un superfluo vacuo. Leggo Bobin e scopro che tutto ciò di cui necessito è una rosa sulla scrivania, “delle piccole cose, le cose inutili che non hanno valore per nessuno salvo che per Dio – un’erbaccia, un granello di polvere, la tristezza dei poveri”. Nel panorama della bellezza Christian Bobin non risparmia la morte, che al contrario è il sottofondo musicale che riecheggia allo scorrere delle pagine; eppure il grave, il morire, diviene così leggero, i mostri deliziosi angeli con cui danzare. L’amore, infine, un dono per l’eternità: “L’amore è questa benevolenza elementare a partire dalla quale una solitudine può parlare a un’altra solitudine e, all’occorrenza accompagnarla nel buio”.

Tutti dovrebbero arrivare a conoscere Bobin, ad incontrarlo. Tutti dovrebbero esercitarsi al trovare, piuttosto che al cercare:

“Ciò che trovo è mille volte più bello di ciò che cerco”.

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Lettera al mio fantasma, epopea dell’Assenza di Saba Anglana

E’ davvero complesso riuscire a trovare parole esatte, pregnanti per descrivere ciò che questa piccola grande opera può suscitare: di fronte alla bellezza, al sublime ci si trova sempre impreparati ed insufficienti. E’ una prosa poetica intervallata da poesie pensanti o narranti, un pensiero poetante che come scrive egregiamente Paolo Mottana “mescola come deve gli scenari comuni alle memorie intime, in un incessante andirivieni”. Il dedicatario di questa lettera di Saba Anglana è un terribile fantasma che almeno una volta nella vita ha visitato ogni essere umano sulla terra: si chiama Assenza. L’assenza è una sorta di demone “post-meridiano”, sembrerebbe avere i connotati di quell’accidia montaliana che attacca l’uomo proprio nell’ora in cui è più debole – il meriggio, o subito dopo. Arriva nel silenzio e porta con sé l’esigenza di un vuoto che curi la mancanza – mancanza di affetti, nostalgia del passato. Abita uno spazio muto perché il frastuono del mondo e la violenza della presenza anestetizzano dal dolore. Grazie a questa epopea, però, i demoni possono diventare preziosi compagni in un momento storico che allena all’abbandono attraverso la tecnologia delle comunicazioni, troppo abile nel depravare il valore della presenza, “l’esserci veramente”. Isolati dall’affollamento, il fantasma che spaventa ed inchioda alle proprie ossessioni può far meno paura, se solo consideriamo il silenzio come “muta liturgia dell’essenziale”. Tra la filosofia di queste pagine è indicata la strada per imparare ad abitare l’Assenza: quella dell’immaginazione, dell’azione che attraverso una sola carezza può immettere energia nuova, sbarazzando la complessa architettura cerebrale delle paure, delle paralisi, annullando le distanze o percorrendo anni luce. Anche quando sceglie la morte per manifestarsi, la veste più spettrale che possa assumere, si può trovare un senso al dolore dell’ab-essere: “Esisti per farmi un po’ di quel male da cui dipendo. […] è soprattutto quando punge la sofferenza che sentiamo di essere composti da qualcos’altro, l’apparato invisibile che chiamiamo psiche o anima, una propaggine che ci salva dalla pochezza della relazione binaria tra visibile e reale”.

Imparare a convivere con i propri mostri interiori è il mestiere della vita.

 

Non voglio occuparmi della felicità

ma di ogni millimetro che percorre

la mia anima verso il suo corpo.

 

Non voglio occuparmi della bellezza

ma della ginnastica quotidiana

per i muscoli della coscienza.

 

Non voglio sapere di resilienza

ma di come fare un trasloco

e portare il desiderio nella sua casa.

 

(Poesia estratta da “Lettera al mio fantasma”, Saba Anglana)

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Quando la scienza e la letteratura si incontrano: un meraviglioso componimento di Michele Mari

I poeti latini

avevano una splendida espressione

per indicar le stelle che cadono in estate:

labentia signa

cioè segni scivolanti

 

Tale mi sembra il tempo

in cui ci siam baciati

scia luminosa

passata troppo in fretta

 

L’astrofisica insegna tuttavia

che quel teatro

caro ai bambini ed agli innamorati

non è caduta e non è scivolamento

ma solamente morte.

(Cento poesie d’amore a Ladyhawke)

Nel cuore della raccolta si concentrano alcune liriche di elevato spessore stilistico, come vuole dimostrare quest’ultimo componimento, che esordisce con l’espressione «I poeti latini». La prima strofa, infatti, chiama in causa i grandi autori della tradizione classica, da sempre oggetto privilegiato di studio dell’erudito Michele Mari. Il quarto verso, che consiste nell’unico latinismo «labentia signa», tinge la poesia di eleganza e raffinatezza, oltre ad innalzare il livello stilistico della raccolta. La formula citata diviene per il poeta un espediente in grado di fornire al lettore la consapevolezza della rapidità del contatto amoroso. Si accenna alla presenza di una qualche carnalità, «ci siam baciati», sembrerebbe quasi di trovarsi di fronte all’uscita da quella condizione di stasi in cui il poeta è fossilizzato, ma, in conclusione, tutto si consuma in un “frullo d’ali”, e il tempo dell’amore svanisce con la stessa celerità con cui si dissolve nel cielo la scia luminosa descritta nei vv. 8-9. Quando la scienza e la letteratura si incontrano, danno vita ad un miracolo, che in questo specifico caso, si concretizza nelle parole di un autore formidabile come Michele Mari: «l’astrofisica insegna», ricorda il poeta, che lo spettacolo delle stelle cadenti, benché porti con sé meraviglia e magia, altro non è che la messa in scena di un dramma di morte al quale l’amore può solo assistere inerme.

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